Arrivo al
porto di Point a Pitre (Guadalupe) alle 09.30. C’è tanta gente e la fila per i
controlli dei passaporti e l’imbarco dei bagagli procede molto lentamente. La
Dominica è scalo internazionale, quindi per poterla raggiungere ho dovuto
acquistare anche un biglietto di uscita dal Paese, nel mio caso verso la
Martinica, con data aperta per avere più margine di scelta.
I traghetti
che collegano le isole francesi tra di loro, e con alcune altre destinazioni
internazionali, sono dei veri e propri mostri, nel senso che possono
trasportare fino a 300 passeggeri alla volta praticamente volando sulla
superficie del mare. Il problema è che quest’ultima raramente e liscia come
l’olio…anzi.
Purtroppo io
non ho riflettuto su questo particolare e non ho neanche preso la pastiglia per
il mal di mare!!!
La
traversata dura quasi tre ore, e dopo circa un’ora parecchie persone stanno
male. Io resisto ma non mi sento benissimo. Più volte il personale passa tra i
passeggeri offrendo sacchetti di plastica e una pacca sulla spalla.
Non posso
farcela per altre due ore…purtroppo la mia assuefazione al dondolio selvaggio,
che ero riuscita faticosamente a conquistare in barca a vela, sembra sparita. L’unica
soluzione è stendermi a pancia in giù da qualche parte, ma dove?
Individuo
una zona libera davanti la prima fila di sedili, che in quel momento è vuota, e
decido di stendermici (dopo aver sistemato la mia felpa a terra).
Mi rendo
conto che non è proprio una bella vista, ma ne offrirei una peggiore se
rimanessi seduta. Riesco così a superare le successive due ore e arrivo in
Dominica un po’ sconvolta ma incolume.
Il porto di
Roseau è assolato e parecchi negozi sono già chiusi perché è sabato. Mi dirigo
verso il centro e chiedo informazioni per un alloggio. Mi indicano alcune guest
house ma, mentre mi avvio, sento che una donna mi chiama.
“senti ho sentito che stai cercando un
alloggio. Se vuoi puoi venire a casa mia. Ho due camere da letto che affitto,
ma in questo momento sono vuote. Ti faccio un buon prezzo”.
È una
signora di circa 45 anni, un bel po’ in carne, con la pelle nera come l’ebano
ed una faccia simpatica ornata la mille riccioli perfetti.
Sono colta
un po’ alla sprovvista, la ringrazio ma le dico che vedrò prima un po’ in giro.
“ok, io mi chiamo
June. Sto qui ancora per una mezz’ora. Se non trovi niente torna da me”
Guardo due
differenti sistemazioni. Sono decenti e i prezzi accettabili. Penso però che
sarebbe più divertente stare a casa di June. Rifletto. Quando mi ha invitato a
casa sua in parecchi l’hanno sentita e, se avesse avuto cattive intenzioni, mi
avrebbe proposto la cosa in maniera meno plateale.
Decido di
tornare indietro. Lei sta giocando con una bambina di circa un anno. La
sbaciucchia stringendola nel suo enorme abbraccio. La piccola ride ma sembra
proprio che stia per soffocare. Mi convinco che non è pericolosa.
Lei mi vede
arrivare e sorride avvicinandosi. Mi dice che stava tornando a casa. Fa la
venditrice ambulante nel mercato della piazza e per oggi ha già finito visto
che è sabato.
Mi indica la
sua auto. Mi libera il posto davanti mettendo la sua mercanzia nel sedile
dietro assieme agli ombrelloni e al banchetto.
“sono
contenta che vieni a stare da me. Io vivo con mio marito ma non abbiamo figli,
quindi mi fa piacere avere qualcuno per casa. Ma tu viaggi da sola? Non hai
paura? Non posso permettere che ti accada qualcosa nel mio Paese. Da adesso
siamo amiche e io mi prenderò cura di te, stai tranquilla.”
Veramente
non mi sentivo in pericolo o preoccupata, ma mi fa piacere che June, nonostante
non sia molto più grande di me, sia così “materna”.
Durante il
tragitto mi bombarda con le sue chiacchere. Parla molto velocemente un inglese
con uno strano accento e spesso incorretto, ma riesco a seguirla.
La sua casa
non è al centro della città, dove del resto non c’è un granchè, ma a circa 15
minuti. Mi dice che non mi devo preoccupare perché qui i bus (che lei pronuncia
“bboss”) passano molto frequentemente e suo marito ne guida uno, quindi non
avrò problemi per gli spostamenti.
Questi bus
sono in realtà i piccoli minivan a 12 posti che nella repubblica Dominicana
chiamano gua-guas, ed in giro ce ne sono davvero tanti.
Arriviamo a
casa sua, una costruzione con il tetto spiovente ed un giardinetto incolto
tutt’attorno. Non è bellissima, ma lei ne è molto fiera e, paragonata alla
maggior parte delle abitazioni che ho visto lungo la strada, ne capisco anche
il motivo.
Mi mostra le
due stanze che riserva agli ospiti. Sono piene di oggetti che non dovrebbero
essere sistemati lì, come uno stendino per la biancheria aperto in un angolo, una vaschetta per
l’idromassaggio ai piedi, dei contenitori cilindrici per il trasporto delle
merci (quelli che lei usa per spedire in Dominica la merce che acquista negli
altri Paesi), una scarpiera stracolma…insomma, tutte cose di cui un ospite
farebbe volentieri a meno. Ma june non è affatto imbarazzata, anzi mi chiede
quale stanza voglio scegliere.
Mi sistemo
in quella più grande, con televisore, stendino e vaschetta idromassaggio.
June mi da
anche una lucetta da notte e mi dice di non farmi problemi a chiedere qualsiasi
cosa di cui abbia bisogno.
Poco dopo
arriva Michael, il marito di June, un ometto di corporatura esile in confronto
alla moglie e di poche parole.
June mi
presenta e dal tono della sua voce e dall'atteggiamento capisco subito chi
comanda in quella casa. Michael mi dice che è felice di avermi come ospite, ha
uno sguardo gentile, ma ho l’impressione che non potrebbe mai dire qualcosa che
contraddica sua moglie.
La serata
scorre velocemente, chiacchieriamo un po’ di tutto. June è molto allegra e
spesso ride di vero gusto dandomi delle belle pacche sulla spalla che
puntualmente mi fanno perdere l’equilibrio.
Il giorno
dopo vengo svegliata da un profumo di frittura. È domenica, la tavola è
apparecchiata di tutto punto e la padrona di casa ha preparato una colazione
speciale: pesce fritto, insalata verde,
provisions (tuberi vari come manioca, patate dolci e altro) e succo
fresco di guayava.
Mi siedo a
tavola, ma nonostante sia abituata a mangiare anche salato a colazione, il
pesce fritto non mi ispira per niente. Non mi sembra giusto però fare questo
affronto a June che è felicissima di mostrarmi tutto quello che ha cucinato e
mi indica sorridente il mio posto. Mi sacrifico, anche se non riesco a mangiare
tutto…il pesce non va proprio giù!
Normalmente
la domenica June va in una chiesa battista, che frequenta da quando ha
riacquistato la fede, ma oggi vuole portarmi in giro. Così facciamo una
passeggiata nel quartiere, la gente ci guarda. June mi presenta a tutte le
persone che incontriamo come la sua amica che starà qualche giorno come ospite
a casa sua. Del resto non posso passare inosservata visto che su quest’isola
quasi tutta la popolazione è nera.
A Roseau, che
è la capitale, non c’è molto da scoprire, ha qualche edificio coloniale, un
giardino, un mercatino per turisti ed un mercato ortofrutticolo vicino al molo
dove attraccano le navi da crociera. Saint Michel, il piccolo centro dove siamo
noi, ha ancora meno…solo case (che spesso somigliano a baracche) e qualche
negozietto microscopico.
La lingua
ufficiale è l’inglese, ma la gente del luogo parla il creolo, un misto di
francese, inglese con influenze africane, per me incomprensibile.
Alla fine
della mattinata conosco i fatti personali della maggior parte delle persone
incontrate, ma credo che sia così in tutti i piccoli centri, soprattutto se
come mestiere si fa la venditrice ambulante.
In serata
June mi invita ad evento importante: ci sarà una festa in città nella quale
verrà eletta, tra le bambine delle scuole elementari di tutta l’isola, la
reginetta con il costume più bello e che sfilerà meglio (non ho ben capito cosa
andava privilegiato, se il costume o la bambina).
Perché no!
In fondo quale modo migliore per calarsi nella cultura del popolo locale se non
lasciarsi coinvolgere nella loro vita.
La festa si
svolge in un grande capannone, con tanto di palco e presentatrici. La gente
intervenuta è in ghingheri, soprattutto le donne che spesso indossano abiti
aderentissimi che sottolineano tutte le loro curve più che generose.
Siamo tutti
in piedi mentre le bambine sul palco sfilano a turno con i loro vestiti
principeschi. La votazione avviene per acclamazione e tra il pubblico ci sono
delle vere e proprie tifoserie di amici e parenti con tanto di cartelli e
slogan.
La serata
trascorre con l’alternarsi delle sfilate e l’esibizione di volontari che
improvvisano qualche canzone dal vivo senza base musicale….una tortura per le
orecchie, ma tutti vengono applauditi.
June si sta
godendo lo spettacolo.
“ti piace?
Divertente, vero? Avvicinati. Vai a fare le foto tu che hai questa bella
macchina!”
In realtà ho
scattato qualche foto e mi sembra sufficiente, ma June mi spinge verso il palco
come se avessi l’opportunità di fotografare le top model del momento!
Dopo circa
tre ore lo spettacolo si conclude e viene eletta la vincitrice, una bimbetta
magrissima che ha lo stesso sorriso stampato sulle labbra dall’inizio della
serata. Le scatto qualche foto e mi rendo conto che la sua espressione è sempre
rimasta immutata, ed anche adesso che potrebbe rilassarsi sembra un manichino.
Sono rimasta un po’ sorpresa dalla tifoseria che l’ha sostenuta e che l’ha
talmente applaudita da non lasciare alcun dubbio sull’esito della gara. Anche
se, a dire il vero, a me non era sembrata la concorrente migliore.
Usciamo dal
capannone, e ci mettiamo sul bordo della strada ad aspettare Michael che ci
venga a riprendere.
Vedo uscire
tutte le concorrenti, che ormai si sono cambiate d’abito, circondate dai
parenti che reggono premi e vestiti.
June sta
parlando con un’amica, mentre una signora accanto a me mi sorride e mi fa
qualche domanda.
“ti è
piaciuto lo spettacolo?”
“sì, le
bambine sembravano delle piccole top model e i vestiti erano molto belli”
“sai, la
mamma della bambina che ha vinto è stata sepolta cinque giorni fa”
Rimango
interdetta, credo di non aver capito bene, ha detto buried, ma forse ho frainteso dato l’accento.
“hai capito
quello che ho detto?” mi ripete la signora vedendo la mia espressione.
“vuoi dire
che è morta?” le chiedo sperando di aver capito male.
“Sì, è morta
di cancro ai polmoni. Aveva 33 anni e avrebbe voluto vedere la sua bambina
vincere”.
Sono
sconvolta. Ripenso a quel sorriso uguale per tutta la sera stampato su quel
faccino e tutta la tifoseria che l’ha sostenuta così animatamente.
Ora capisco
quell’incoraggiamento, a me sembrato eccessivo, e mi chiedo cosa abbia dovuto
provare e pensare per tutto quel tempo, mentre sfilava o mentre veniva
incoronata. Che tristezza!
Torniamo a
casa e June è davvero soddisfatta.
“è stata una
bella serata, vero?”
Mi chiede
senza in realtà aspettare una vera risposta. Come se fosse scontata la mia
soddisfazione per aver partecipato ad un evento come quello.
“domani
andiamo alle piscine calde di acqua sulfurea. Ci accompagna Michael, ti
piacerà”
“ma tu non
devi andare a lavorare?” le domando.
“io non
lavoro per nessuno, posso assentarmi quando voglio. E poi tu mi stai pagando,
quindi io sto guadagnando. Preferisco prendermi cura di te ed accompagnarti”
Le sorrido e
penso che mi fa piacere che mi accompagni, ma anche se non fosse così avrei
qualche difficoltà a farglielo capire….
“bene,
allora a domani”
(continua...)
Nessun commento:
Posta un commento