giovedì 6 marzo 2014

Dominica (15-16 febbraio)

Arrivo al porto di Point a Pitre (Guadalupe) alle 09.30. C’è tanta gente e la fila per i controlli dei passaporti e l’imbarco dei bagagli procede molto lentamente. La Dominica è scalo internazionale, quindi per poterla raggiungere ho dovuto acquistare anche un biglietto di uscita dal Paese, nel mio caso verso la Martinica, con data aperta per avere più margine di scelta.
I traghetti che collegano le isole francesi tra di loro, e con alcune altre destinazioni internazionali, sono dei veri e propri mostri, nel senso che possono trasportare fino a 300 passeggeri alla volta praticamente volando sulla superficie del mare. Il problema è che quest’ultima raramente e liscia come l’olio…anzi.
Purtroppo io non ho riflettuto su questo particolare e non ho neanche preso la pastiglia per il mal di mare!!!
La traversata dura quasi tre ore, e dopo circa un’ora parecchie persone stanno male. Io resisto ma non mi sento benissimo. Più volte il personale passa tra i passeggeri offrendo sacchetti di plastica e una pacca sulla spalla.
Non posso farcela per altre due ore…purtroppo la mia assuefazione al dondolio selvaggio, che ero riuscita faticosamente a conquistare in barca a vela, sembra sparita. L’unica soluzione è stendermi a pancia in giù da qualche parte, ma dove?
Individuo una zona libera davanti la prima fila di sedili, che in quel momento è vuota, e decido di stendermici (dopo aver sistemato la mia felpa a terra).
Mi rendo conto che non è proprio una bella vista, ma ne offrirei una peggiore se rimanessi seduta. Riesco così a superare le successive due ore e arrivo in Dominica un po’ sconvolta ma incolume.
Il porto di Roseau è assolato e parecchi negozi sono già chiusi perché è sabato. Mi dirigo verso il centro e chiedo informazioni per un alloggio. Mi indicano alcune guest house ma, mentre mi avvio, sento che una donna mi chiama.
 “senti ho sentito che stai cercando un alloggio. Se vuoi puoi venire a casa mia. Ho due camere da letto che affitto, ma in questo momento sono vuote. Ti faccio un buon prezzo”.
È una signora di circa 45 anni, un bel po’ in carne, con la pelle nera come l’ebano ed una faccia simpatica ornata la mille riccioli perfetti.
Sono colta un po’ alla sprovvista, la ringrazio ma le dico che vedrò prima un po’ in giro.
“ok, io mi chiamo June. Sto qui ancora per una mezz’ora. Se non trovi niente torna da me”
Guardo due differenti sistemazioni. Sono decenti e i prezzi accettabili. Penso però che sarebbe più divertente stare a casa di June. Rifletto. Quando mi ha invitato a casa sua in parecchi l’hanno sentita e, se avesse avuto cattive intenzioni, mi avrebbe proposto la cosa in maniera meno plateale.
Decido di tornare indietro. Lei sta giocando con una bambina di circa un anno. La sbaciucchia stringendola nel suo enorme abbraccio. La piccola ride ma sembra proprio che stia per soffocare. Mi convinco che non è pericolosa.
Lei mi vede arrivare e sorride avvicinandosi. Mi dice che stava tornando a casa. Fa la venditrice ambulante nel mercato della piazza e per oggi ha già finito visto che è sabato.
Mi indica la sua auto. Mi libera il posto davanti mettendo la sua mercanzia nel sedile dietro assieme agli ombrelloni e al banchetto.
“sono contenta che vieni a stare da me. Io vivo con mio marito ma non abbiamo figli, quindi mi fa piacere avere qualcuno per casa. Ma tu viaggi da sola? Non hai paura? Non posso permettere che ti accada qualcosa nel mio Paese. Da adesso siamo amiche e io mi prenderò cura di te, stai tranquilla.”
Veramente non mi sentivo in pericolo o preoccupata, ma mi fa piacere che June, nonostante non sia molto più grande di me, sia così “materna”.
Durante il tragitto mi bombarda con le sue chiacchere. Parla molto velocemente un inglese con uno strano accento e spesso incorretto, ma riesco a seguirla.
La sua casa non è al centro della città, dove del resto non c’è un granchè, ma a circa 15 minuti. Mi dice che non mi devo preoccupare perché qui i bus (che lei pronuncia “bboss”) passano molto frequentemente e suo marito ne guida uno, quindi non avrò problemi per gli spostamenti.
Questi bus sono in realtà i piccoli minivan a 12 posti che nella repubblica Dominicana chiamano gua-guas, ed in giro ce ne sono davvero tanti.
Arriviamo a casa sua, una costruzione con il tetto spiovente ed un giardinetto incolto tutt’attorno. Non è bellissima, ma lei ne è molto fiera e, paragonata alla maggior parte delle abitazioni che ho visto lungo la strada, ne capisco anche il motivo.
Mi mostra le due stanze che riserva agli ospiti. Sono piene di oggetti che non dovrebbero essere sistemati lì, come uno stendino per la biancheria aperto in un angolo, una vaschetta per l’idromassaggio ai piedi, dei contenitori cilindrici per il trasporto delle merci (quelli che lei usa per spedire in Dominica la merce che acquista negli altri Paesi), una scarpiera stracolma…insomma, tutte cose di cui un ospite farebbe volentieri a meno. Ma june non è affatto imbarazzata, anzi mi chiede quale stanza voglio scegliere.
Mi sistemo in quella più grande, con televisore, stendino e vaschetta idromassaggio.
June mi da anche una lucetta da notte e mi dice di non farmi problemi a chiedere qualsiasi cosa di cui abbia bisogno.
Poco dopo arriva Michael, il marito di June, un ometto di corporatura esile in confronto alla moglie e di poche parole.
June mi presenta e dal tono della sua voce e dall'atteggiamento capisco subito chi comanda in quella casa. Michael mi dice che è felice di avermi come ospite, ha uno sguardo gentile, ma ho l’impressione che non potrebbe mai dire qualcosa che contraddica sua moglie.
La serata scorre velocemente, chiacchieriamo un po’ di tutto. June è molto allegra e spesso ride di vero gusto dandomi delle belle pacche sulla spalla che puntualmente mi fanno perdere l’equilibrio.
Il giorno dopo vengo svegliata da un profumo di frittura. È domenica, la tavola è apparecchiata di tutto punto e la padrona di casa ha preparato una colazione speciale: pesce fritto, insalata verde,  provisions (tuberi vari come manioca, patate dolci e altro) e succo fresco di guayava.
Mi siedo a tavola, ma nonostante sia abituata a mangiare anche salato a colazione, il pesce fritto non mi ispira per niente. Non mi sembra giusto però fare questo affronto a June che è felicissima di mostrarmi tutto quello che ha cucinato e mi indica sorridente il mio posto. Mi sacrifico, anche se non riesco a mangiare tutto…il pesce non va proprio giù!
Normalmente la domenica June va in una chiesa battista, che frequenta da quando ha riacquistato la fede, ma oggi vuole portarmi in giro. Così facciamo una passeggiata nel quartiere, la gente ci guarda. June mi presenta a tutte le persone che incontriamo come la sua amica che starà qualche giorno come ospite a casa sua. Del resto non posso passare inosservata visto che su quest’isola quasi tutta la popolazione è nera.
A Roseau, che è la capitale, non c’è molto da scoprire, ha qualche edificio coloniale, un giardino, un mercatino per turisti ed un mercato ortofrutticolo vicino al molo dove attraccano le navi da crociera. Saint Michel, il piccolo centro dove siamo noi, ha ancora meno…solo case (che spesso somigliano a baracche) e qualche negozietto microscopico.
La lingua ufficiale è l’inglese, ma la gente del luogo parla il creolo, un misto di francese, inglese con influenze africane, per me incomprensibile.
Alla fine della mattinata conosco i fatti personali della maggior parte delle persone incontrate, ma credo che sia così in tutti i piccoli centri, soprattutto se come mestiere si fa la venditrice ambulante.
In serata June mi invita ad evento importante: ci sarà una festa in città nella quale verrà eletta, tra le bambine delle scuole elementari di tutta l’isola, la reginetta con il costume più bello e che sfilerà meglio (non ho ben capito cosa andava privilegiato, se il costume o la bambina).
Perché no! In fondo quale modo migliore per calarsi nella cultura del popolo locale se non lasciarsi coinvolgere nella loro vita.
La festa si svolge in un grande capannone, con tanto di palco e presentatrici. La gente intervenuta è in ghingheri, soprattutto le donne che spesso indossano abiti aderentissimi che sottolineano tutte le loro curve più che generose.
Siamo tutti in piedi mentre le bambine sul palco sfilano a turno con i loro vestiti principeschi. La votazione avviene per acclamazione e tra il pubblico ci sono delle vere e proprie tifoserie di amici e parenti con tanto di cartelli e slogan.
La serata trascorre con l’alternarsi delle sfilate e l’esibizione di volontari che improvvisano qualche canzone dal vivo senza base musicale….una tortura per le orecchie, ma tutti vengono applauditi.
June si sta godendo lo spettacolo.
“ti piace? Divertente, vero? Avvicinati. Vai a fare le foto tu che hai questa bella macchina!”
In realtà ho scattato qualche foto e mi sembra sufficiente, ma June mi spinge verso il palco come se avessi l’opportunità di fotografare le top model del momento!
Dopo circa tre ore lo spettacolo si conclude e viene eletta la vincitrice, una bimbetta magrissima che ha lo stesso sorriso stampato sulle labbra dall’inizio della serata. Le scatto qualche foto e mi rendo conto che la sua espressione è sempre rimasta immutata, ed anche adesso che potrebbe rilassarsi sembra un manichino. Sono rimasta un po’ sorpresa dalla tifoseria che l’ha sostenuta e che l’ha talmente applaudita da non lasciare alcun dubbio sull’esito della gara. Anche se, a dire il vero, a me non era sembrata la concorrente migliore.
Usciamo dal capannone, e ci mettiamo sul bordo della strada ad aspettare Michael che ci venga a riprendere.
Vedo uscire tutte le concorrenti, che ormai si sono cambiate d’abito, circondate dai parenti che reggono premi e vestiti.
June sta parlando con un’amica, mentre una signora accanto a me mi sorride e mi fa qualche domanda.
“ti è piaciuto lo spettacolo?”
“sì, le bambine sembravano delle piccole top model e i vestiti erano molto belli”
“sai, la mamma della bambina che ha vinto è stata sepolta cinque giorni fa”
Rimango interdetta, credo di non aver capito bene, ha detto buried, ma forse ho frainteso dato l’accento.
“hai capito quello che ho detto?” mi ripete la signora vedendo la mia espressione.
“vuoi dire che è morta?” le chiedo sperando di aver capito male.
“Sì, è morta di cancro ai polmoni. Aveva 33 anni e avrebbe voluto vedere la sua bambina vincere”.
Sono sconvolta. Ripenso a quel sorriso uguale per tutta la sera stampato su quel faccino e tutta la tifoseria che l’ha sostenuta così animatamente.
Ora capisco quell’incoraggiamento, a me sembrato eccessivo, e mi chiedo cosa abbia dovuto provare e pensare per tutto quel tempo, mentre sfilava o mentre veniva incoronata. Che tristezza!
Torniamo a casa e June è davvero soddisfatta.
“è stata una bella serata, vero?”
Mi chiede senza in realtà aspettare una vera risposta. Come se fosse scontata la mia soddisfazione per aver partecipato ad un evento come quello.
“domani andiamo alle piscine calde di acqua sulfurea. Ci accompagna Michael, ti piacerà”
“ma tu non devi andare a lavorare?” le domando.
“io non lavoro per nessuno, posso assentarmi quando voglio. E poi tu mi stai pagando, quindi io sto guadagnando. Preferisco prendermi cura di te ed accompagnarti”
Le sorrido e penso che mi fa piacere che mi accompagni, ma anche se non fosse così avrei qualche difficoltà a farglielo capire….
“bene, allora a domani”
(continua...)


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